18/06/2025

Un sudario per la pace al DiSSUF

Un sudario per la pace al DiSSUF

Domani, 19 giugno, alle 13, al secondo piano del DiSSUF, si stenderà in Via Zanfarino un sudario bianco come azione simbolica per la pace e per manifestare solidarietà contro i continui atti di disumanità che si stanno perpetrando in Palestina.

 

Gli studenti, i docenti e il personale interessati sono invitati a collaborare e a partecipare.

Quali parole per la Palestina?

Lunga vita alla Palestina

Care colleghe e colleghi,

qualche parola di aggiornamento sulla manifestazione simbolica che – come sapete – si è svolta ieri, con il principale intento di non tacere più di fronte a una disumanità sistematica che si nutre di indifferenza, distorsioni e assuefazione, e che sta portando alla distruzione della Striscia di Gaza, della Cisgiordania e dei loro abitanti.

 

La notizia del nostro atto simbolico si è diffusa anche fuori dall’Università, probabilmente perché collettivi ed ex-studenti sentono fortemente la necessità di essere ascoltati, di fronte all’assordante silenzio istituzionale. Per cui, oltre a una ventina di nostri studenti e a una rappresentanza di docenti, c’erano anche una quindicina di giovani esterni all’Università, con cui abbiamo voluto e sentito il bisogno di dialogare, tanto più che tra loro c’erano due ragazzi palestinesi. Ne è nata una discussione vivace e molto interessante, di oltre due ore, attraverso cui abbiamo messo in discussione ciascuno le certezze degli altri. È stato un momento di confronto e interazione reciproca, nello spirito di un’Università aperta, che sa uscire dalle sue mura e accogliere dentro le sue mura.

 

Il primo confronto ha riguardato il sudario, che – ci è stato fatto notare – è simbolo di morte, più che di vita; avvolge i corpi quasi a sancire che potrà esserci solo morte e distruzione; esprime compassione per chi muore e per la tragedia che si consuma sotto i nostri occhi assuefatti, ma non dà forza a un popolo che ha bisogno di sostegno per vivere (o sopravvivere).

 

Abbiamo perciò deciso di scrivere qualcosa sul telo bianco, e anche sulle parole c’è stato un lungo dibattito: nessuna proposta sembrava riscuotere consenso, o perché anche le parole si stanno logorando, o perché la semantica assumeva sfumature non rispondenti alle sensibilità in campo. Persino la parola ‘Pace’ è risultata problematica: pace a che prezzo? Se la pace coincide con la distruzione o l’esodo di un popolo, se si arriverà a una pace sulla pelle dei civili, è davvero pace?

Similmente per la parola ‘Umanità’ o per la proposta «Restiamo umani»: che significato hanno queste parole per popoli che vivono in perenne stato di guerra, e che da 70 anni assistono alla morte dei propri cari e alla distruzione delle proprie case e della propria terra? Per i quali ogni ricostruzione è una nuova distruzione? Si può davvero rimanere umani, in quelle condizioni? Abbiamo naturalmente argomentato che non è questo il senso che diamo alla parola, che è un monito per il mondo occidentale e non certo per quello palestinese, ma comunque il fatto che sia stata recepita in questa accezione ci ha fatto riflettere su quanto – in questo delicato contesto – risponda solo al nostro punto di vista, per cui abbiamo cercato altro.

 

L’unica frase che, dopo altre riflessioni, ci è sembrata capovolgere la semantica della morte implicita nel sudario ed esplicita nella parola ‘genocidio’ è stata «Lunga vita alla Palestina», che è espressione usata da decenni nei Paesi arabofoni per esprimere sostegno e solidarietà a quella che un tempo era la Palestina, e che come ben sapete si è progressivamente ridotta alla sola Striscia di Gaza e alla Cisgiordania. È un modo diverso per esprimere l’indignazione contro il «plausibile genocidio» palestinese (come scritto dalla Corte internazionale di Giustizia, ma a febbraio 2024…), ma tanto più forte perché lo fa con parole di vita e perché è stata proposta, e poi scritta in arabo, dai due ragazzi palestinesi che erano con noi. Sotto, la traduzione in italiano; intorno, rami di ulivo, simbolo di pace.

 

Scrivere e dipingere sul telo è stato un atto collettivo che ha unito ulteriormente e a cui i nostri studenti si sono dedicati con dedizione, levigando – attraverso l’arte e la parola bilingue – difformità e (diciamolo pure) intransigenze iniziali, perché è sempre difficile mediare e far dialogare sensibilità diverse, che tuttavia nell’Università hanno avuto un momento di confronto che ha coinvolto anche noi docenti, ed è stato costruttivo per tutti, nello spirito (crediamo) di ciò che l’Università dovrebbe essere: un luogo di pace, di dialogo, di incontro e di creazione nella conoscenza, tanto più necessario quando le parole di guerra si fanno “inevitabili”.

 

Speriamo che il senso di questo lungo e bel pomeriggio (che si è concluso alle 18) sia condiviso da tutti i componenti del Consiglio, e che il percorso avviato ci trovi uniti nella consapevolezza che prendere la parola è sempre un atto politico, ma in questo caso soprattutto un atto umano ed etico-civile.

 

Un caro saluto a tutte e tutti,

 

Alexander Hoebel,

Rosanna Morace,

Cristiano Tallè